Racconti


L'ULTIMA VISITA
Racconto VINCITORE DEL PREMIO GUARESCHI 2000
di Claudio Chillemi


Quando mia madre morì, ricordo che mio padre non pianse. Rimase a lungo a guardare quel corpo privo di vita, e parlava a bassa voce con esso, come se lei potesse rispondergli, o, quel che è più incredibile, gli rispondesse. Pensai ad una sua pazzia, che il dolore l’avesse distrutto fino al punto di piegare la sua mente, ma non fu così o, almeno, così non sembrava. Egli viveva quei momenti quasi senza sconforto, animato da una speranza, che non aveva nessuna ragione di esistere. Mio padre viveva come se mia madre fosse ancora con lui, ed io? Mi ero sposato già da due anni, ma li sapevo tranquilli, e, ogni tanto, andavo a trovarli. Morta mia madre andai da mio padre molto più spesso, credendolo solo ed abbattuto, ma, come detto, non era così.
Il giorno in cui mio padre morì era una di quelle domeniche che io avevo deciso di passare con lui, dopo aver lasciato mia moglie e mio figlio da mia suocera. Giunsi verso le nove al paese, e già le vecchie signore vestite di nero erano per strada di ritorno dalla messa di un’ora prima. Arrivai a casa di mio padre e posteggiai l’automobile sotto l’ombra di una tettoia, dove si arrampicavano molte piante di viti. Chiamai ad alta voce, e qualcuno mi rispose dall’interno. Era mio padre che stava consumando la sua parca colazione a base di pane e latte. Mi salutò con un bacio sulla guancia e mi chiese subito della mia famiglia, io gli risposi che stavano tutti bene, e domandai della sua salute. Durante la conversazione, mi guardai intorno, la cucina era sempre la stessa; i mobili in legno dove mia madre teneva le conserve, e il pane, che lei stessa faceva nel forno accanto alla casa, sembravano non soffrire per nulla della sua mancanza. Ogni cosa era ancora al suo posto, il vecchio macinino del caffè, il setaccio per il grano e la crusca, le pentole di rame attaccate a chiodi ormai arrugginiti, e, fermo immobile ad aspettare che qualcuno lo indossasse, il suo grembiule, che mi induceva a tenere ricordi di colazioni dolci e sazianti, di pranzi squisiti e abbondanti, di cene calde e confortanti. La cucina era ancora lì, immobile ad aspettarla, senza accorgersi della sua assenza.
Sentivo l’eco delle parole di mio padre, e ascoltavo il dolce suono della sua voce, senza curarmi molto di quello che diceva, perso, com’ero, a ricordare la mia infanzia. Fu così che ritrovai il bambino che giocava con Gianni, il figlio più grande della signora Rosa che abitava ad un centinaio di metri da noi; lo stesso ragazzo scavezzacollo che mangiava le albicocche rubate da dentro un cesto del fruttivendolo vicino casa. E, come allora, guardavo con immutato stupore mio padre e mia madre baciarsi ogni momento quando il momento glielo consentiva. Quell’idillio, che li aveva accompagnati fino alla morte di lei, anche se lui continuava a vivere come se ci fosse ancora.
Mio padre mi portò con sé in paese, voleva andare a comprare il giornale, e, come al solito, si sarebbe fermato a bere qualcosa al bar. Durante il breve tragitto incontrai tutti volti nuovi, figli e figlie di persone che conoscevo bene. Il professor Cecchi, mio insegnante di matematica, mi salutò battendo la sua mano sulla mia spalla, accompagnando quel gesto con una profonda risata baritonale; Giacomo Verdi, padre del mio migliore amico, ci invitò a casa sua per una rimpatriata, ma noi declinammo l’invito, adducendo imprecisati motivi di famiglia.
Mi sentivo come in un film, quelle pellicole dominate da un filtro color seppia, che ricorda le vecchie foto di famiglia di fine Ottocento. E, finalmente, mi trovai al bar, insieme a mio padre che leggeva il giornale, commentando le notizie ad alta voce con gli altri avventori e bevendo, riluttante, un bicchiere di gazzosa con uno spicchio di limone, da quando il medico gli aveva proibito il vino. Da parte mia, ero inquieto, e dimostravo il mio disagio tamburellando le dita sul piccolo tavolo, che si reggeva a mala pena, piegato dai suoi tre decenni di vita. Guardando quelle pareti logore, dove, per incuria del proprietario, erano ancora appesi calendari di alcuni lustri prima, mi sovvenne un ricordo dolcissimo e buffo, che aveva avuto come protagonisti i miei genitori. Mia madre, un giorno, venne proprio in questo vecchio bar a prendere a legnate mio padre, reo di star tutto il giorno a bere, e io, con i miei compagni nascosto dietro a un muro, mi gustai divertito tutta la scena, anche quando il mio focoso genitore, tornando a casa, prese in braccio mia madre, e le diede un bacio, giusto per fare pace.
Mio padre mi fece un cenno, ed uscimmo dall’osteria, salutati dalla gente. Tornammo pian piano a casa e, durante la strada, decidemmo cosa preparare da mangiare per il pranzo. “Ammazzerò un pollo!”, mi disse, ed io feci di sì con la testa. Una volta i polli li ammazzava mia madre, mio padre non aveva abbastanza coraggio, ora, per forza di cose, si era dovuto adattare.
Mentre mio padre cucinava, mi guardai ancora intorno.
Uscii fuori in giardino, dove si vedevano i fiori piantati da mia madre, li sfiorai, e provai fortemente la sensazione di accarezzarla, ma non era così. Vidi un’ombra innanzi a me, e mi voltai, era mio padre che, messo sul fuoco il nostro pranzo, mi aveva raggiunto.
" Belli," mi disse con voce strana.-        Sì, papà…Li ha piantati mamma, vero?-
"Oh sì, ed io ora li curo."-        Soffri molto la sua mancanza?-
"Quale mancanza?"
"Il fatto che lei non c’è. Che non condivide i tuoi giorni"
"Quant’è presuntuoso l’uomo. Vuole dare nome e cognome ai giorni; ventidue settembre
millenovecentoetanti…E non sa dare un nome a se stesso, non sa darsi una sua identità. Oh, non dico
che non mi chiamo più Giovanni, e che lui non si chiama più Michele, io dico solo che l’uomo in
diecimila anni non è riuscito ancora a trovarsi, e vuole dare un nome al tempo, vuole soffrire per una 
ancanza che non esiste. Se soffrissi per la perdita di tua madre, la mia sofferenza sarebbe vana, in
quanto, chi soffre per la sua assenza? Io, tu, e qualcun altro, ma poi?, chi altri? Nessuno! Essa non
vivrà in eterno nei nostri ricordi e nelle nostre menti, e dovrà morire nuovamente, quando noi
moriremo. Quello che mi manca veramente è il suo corpo, e nessuno potrà restituirmelo. Esso è
’unica cosa  capace di creare nuove situazioni, che generano altri ricordi…La morte rende ogni cosa 
riva di significato?"
"No, ma gli dà il suo vero significato. Gelosie, invidie, amori, tenerezze. Ogni cosa assume la sua
reale dimensione e si inserisce nel tempo, in quel tempo in cui essa è nata e poi si è consumata. E
cosa possiamo pretendere noi uomini se non quello di lasciare incastonate nel tempo le nostre piccole
pietre. Questo solo ci è concesso! E vorremmo dare un nome agli anni, ai mesi che passano..."
"Ma non resta proprio nulla di noi?"
"Mah?" Disse mio padre allargando le braccia, e si avviò verso casa.
Lo seguii e, pieno di dubbi e d’incertezze per il lungo discorso appena udito, m’accorsi, quasi con terrore, che per l’uomo, oltre alla morte fisica, si preparava un’altra morte, quella dell’oblio. Mio padre era sempre stato molto bravo con le parole, fin da quando, appena diciassettenne, entrò pieno di speranze alla facoltà di lettere. Ma due anni dopo, aveva dovuto abbandonare gli studi per curare le aziende agricole di mio nonno, prematuramente scomparso. Nonostante questo, la sua passione per la lettura dei classici e il filosofeggiare non era venuta meno, e, anzi, si era arricchita di quella certosina pazienza e di quel sano buon senso tipicamente contadino. Ecco perché, ancora una volta, le sue parole instillarono in me un profondo senso di disagio, ed io cercai di ribellarmi a quella ineluttabile sentenza pronunciata da mio padre. Non potevo accettare una cosa simile, non potevo. Mi precipitai in casa nel vano tentativo di farlo ragionare, ma trovai già il cibo nel piatto, profumato e fumante, le posate belle in ordine, e il bicchiere capovolto per non far entrar polvere. Tutto ordinato, tutto perfetto. Così, la mia inquietudine svanì in un istante, di fronte quell’ulteriore miracolo che aveva indotto mio padre a sistemare la tavola per il pranzo allo stesso identico modo di come avrebbe fatto mia madre.
Fu un incedere lento e silenzioso, scosso solo dal tintinnare della forchetta sul piatto, dallo scorrer dell’acqua e del vino, dal masticare incerto e tenace, su ossa di pollo ben cotto. Non una parola, e nemmeno un sospiro, cullati dall’ombra del canneto nutrimmo il nostro corpo senza distrarci. Finito di mangiare, mio padre iniziò a sbucciare una pera con estrema perizia. Tagliò la parte superiore e la buttò nel piatto, quindi tagliò una porzione circolare, e la sbucciò. Poi, mentre la mangiava, ne tagliò un altro pezzo; e così via, finché l’intera polpa del frutto non fu finita, e nel piatto rimasero un cumulo di bucce.
Nel presto pomeriggio andammo a dormire. Mio padre si sdraiò su una poltrona vicino l’ombra a scacchi di una veranda, e, al leggero venticello di quella giornata, si cullò dolcemente nel mondo dei sogni leggendo beatamente le odi del Manzoni. Io rimasi sveglio giocherellando con vecchi soprammobili che avevo imparato a conoscere fin da bambino. Un mortaio di ferro, che mi divertivo a far suonare come una campana, o un dolce angioletto di ceramica, con un’ala spezzata da un’involontaria caduta. Ogni cosa, la più piccola cosa, aveva un ricordo legato, stretto ad essa, che la rendeva viva, organica, e non inerte materia raccogli polvere.
Restavo a guardare il mio vecchio genitore e il silenzio regnava attorno a me, nella campagna circostante.
Mio padre si svegliò un’ora dopo, si alzò e, mentre camminava, si teneva la schiena con la mano, quasi a volersi sorreggere. Entrò in un piccolo sgabuzzino e ne venne fuori con una grande scatola, si sedette accanto a me, e l’aprì. Vi stavano fotografie, lettere, gioielli, cartoline illustrate, alcune penne, e vari altri oggetti.
"Di chi è questa roba?" Chiesi.
"Della mamma!"-        E le foto? Non sei tu, l’uomo che abbraccia…-
"E’ il primo fidanzato di tua madre. Quanto mi hanno fatto soffrire queste fotografie, ma lei non le ha
mai buttate, anche dopo decenni che eravamo sposati. Non serve a nulla, mi disse. Ed io pensai che
aveva ragione, perché il ricordo di quell’uomo era comunque in lei, con o senza fotografie. E questo è
un fatto. Io ho distrutto e bruciato ogni cosa del mio passato. Nella mia vita ho visto ciò che era
importante per me, e il resto l’ho dimenticato, ho voluto dimenticarlo. Non so chi di noi abbia
atto meglio, ma qualcosa resta."
Si alzò ancora più stanco, ed andò a riporre la scatola. Io lo vidi pallido, e cercai di sorreggerlo, lui si scostò dolcemente e mi sorrise. Iniziai a capire che qualcosa non andava, e rilessi, alla luce di una previsione profetica, le parole che mio padre mi aveva detto quel giorno. Il parlare della morte, della dimenticanza.
Lo vidi prendere da un cassetto una corona per recitare il rosario, fatta con petali di rose. Mi sovvenne che essa era stata regalata a mia madre da una vecchia signora incontrata sul pullman,  mentre andavamo in pellegrinaggio a Santa Rita da Cascia. Dopo anni, la corona odorava ancora, e mio padre l’annusò.
"Io ora dirò il rosario," mi disse.
"Vuoi che ti faccia compagnia?"
"No!"
Ed iniziò a pregare, mentre io, in un angolo, vivevo tutto questo come un sogno. Mio padre, infatti, pronunciava la prima parte di ogni preghiera, e poi stava in silenzio, come se attendesse la risposta di qualcuno che recitava il rosario insieme a lui. Gli chiesi, allora, spiegazioni del suo agire.
"Ma qui non c’è nessuno, papà!"
"Qui no, ma là fuori sì! Là fuori, senti?…Ascolta! Udrai anche tu la risposta."
Feci finta di stare ad ascoltare, per fargli piacere, e quindi gli diedi ragione.
"Sì, c’è qualcuno là fuori!"
"Tu menti, tu non hai sentito. Ma fa lo stesso, io sento…Sento chiaramente."
E continuò a pregare. Poi, lentamente, reclinò il capo, mormorò delle parole, chiuse gli occhi. Stava morendo.
Ho dei ricordi confusi di quelle ore. Chiamai il dottore, poi il prete, e infine i cugini, avvertii ogni persona. Quindi, compresi che non c’era più nulla da fare, raccolsi le sue ultime parole e lo lasciai andare.
"Noi siamo grumi di carne che il tempo lascia al suo passaggio, e poi qualcuno ci raccoglie, solo
dopo l’eternità noi possiamo continuare ad esistere…Esistere!"
Mi resi conto che era proprio impazzito. Mormorare in punto di morte quelle strane parole! Mi preoccupai per la sua dignità di uomo, per la sua integrità di brava persona, cosa avrebbe pensato mia madre se lo avesse visto mutato a tal punto? La sua splendida mente che girava a vuoto, il suo incomparabile cervello che non trasmetteva più sublimi pensieri…Ma, fortunatamente, io solo udii le sue parole morenti, e così lo confortai come potei, prendendo la sua mano nella mia e sorridendogli, mentre i suoi occhi si chiudevano per sempre.
Quando il feretro, però, si mosse lungo la navata centrale della chiesa madre del paese, mi accorsi, per la prima volta, che le parole di mio padre un senso, seppur lato e misterioso, lo avevano. In effetti noi siamo dei grumi di carne che il tempo trascina con sé. E su queste considerazioni mi soffermai a lungo a pensare, senza stare a sentire la predica del parroco, le strette di mano, le condoglianze più o meno sincere, il suono lento e lugubre della campana. E, come non visto, mi ritrovai a casa mia, rinchiuso in una stanza da solo.
Ancora sopra pensiero mi colse il sonno. Mi svegliarono alcune voci indistinte. Da dove provenivano? Non lo riuscii a capire, ma risposi al loro richiamo.
"Sì,"dissi. "Sì!"

Caddi, allora, in un profondo torpore; e, nel momento in cui mi destai, il ricordo di quell’episodio era indelebile in me. Ma, non seppi mai se quelle voci io le avevo sognate, le avevo udite veramente, o se erano il parto della stessa pazzia che aveva colpito mio padre quando morì.





LA PICCOLA GUERRA DI CAPODANNO
Racconto di Claudio Chillemi


Ignazio era figlio di mia zia Maria, la sorella di mio padre. Eravamo cresciuti insieme. Come si usa fare qui al sud, dove per famiglia s’intende dalla prima alla settima generazione, amici inclusi. Lui era un ragazzo alto e robusto, portava sempre i capelli lunghi e non parlava mai, i suoi occhi celesti come il cielo d’inverno, emettevano degli strani bagliori intermittenti che erano il suo solo mezzo di comunicazione con il resto del mondo. Io, invece, ero un mingherlino tutto vestito, che non riuscivo a restare con la bocca chiusa. Insieme formavamo una bella coppia per le vie del quartiere spagnolo della città. Tutti ci conoscevano, eravamo piuttosto simpatici al passaggio, visto le nostre opposte caratteristiche fisiche, noi lo sapevamo e ne ridavamo nell’intimo delle nostre anime, senza mancar mai di rivolgere uno sguardo di accondiscendenza ora a destra ora a manca.
Quella mattina del trentuno dicembre, avevamo deciso di acquistare un po’ di botti per l’imminente festività di fine anno. La città era un brulicare di migliaia di bancarelle dove albanesi, marocchini, e italiani mettevano in vendita veri e propri arsenali, prodotti in proprio, o meglio, arrangiati in proprio, con carte coloratissime e forme stranissime. Eravamo estasiati a guardare l’incredibile offerta di quelle bancarelle, raccoglievamo i soldi per quella spesa da ormai quasi tre mesi, e non volevamo farla senza un’appropriata, seppur estemporanea, indagine di mercato. Fu così che iniziammo a girare verso le nove del mattino, ed ancora alle cinque del pomeriggio non avevamo deciso. Ignazio mi guardava e lampeggiava come al suo solito, io volavo da una bancarella all’altra chiedendo prezzi e sondando la consistenza del prodotto; finalmente, dopo aver esaurito tutti i luoghi di vendita della città, decidemmo di acquistare le nostre “bombe” da Tullio, un saccente venditore che si trovava a pochi metri dalla stazione ferroviaria. Aveva una barba incolta e gli mancava un dente proprio sul davanti, ma il suo sorriso era chiaro e sincero; con un lampo dei suoi occhi, mio cugino m’informò che di lui ci si poteva fidare. Mi avvicinai lentamente e lo vedi rifornire un signore ben vestito che era appena uscito da una lussuosa auto sportiva. La gente non perdeva occasione per sparare all’anno vecchio e festeggiare al nuovo. Anche coloro come quel tizio, che sarebbero stati sempre ricchi, di qualunque anno si parlava. Tullio incasso un bel rotolo di banconote da centomila e accompagnò l’avventore fino all’auto aiutandolo a trasportare due enormi scatoloni di botti, che l’uomo aveva acquistato. Guardai Ignazio e vidi nei suoi occhi un vero furore di lampi e tuoni d’invidia mista a rabbia.
Aspettammo con pazienza che Tullio ritornasse e quindi gli dicemmo le nostre richieste, lui abbassava la testa con fare positivo, e metteva dentro una busta di plastica ogni cosa da noi indicata. Il conto che ci presentò, però, era piuttosto salato, arrivavamo a stento a coprirlo con i nostri poveri risparmi. Allora decisi di contrattare, e una parola tira l’altra, si fecero le otto di sera, sfinito per la lunga giornata di lavoro e tediato non poco dai miei discorsi e dagli sguardi di Ignazio, Tullio ci fece una controproposta finale. “Guardate, ragazzi, il prezzo resta quello…In più vi regalo un Razzo fatto da me…Quando l’accenderete lo vedrete partire dritto verso la luna…”. Guardai mio cugino, ed entrambi guardammo l’ordigno che l’uomo ci offriva. Era un aggeggio dalla forma approssimativa di un’astronave, lungo circa cinquanta centimetri, con una coda di miccia e un bastone per fissarlo in terra. Un capolavoro dell’arte dei botti fatti in casa. Ignazio mugugnò il suo assenso ed io lo presi al volo.
Giunti a casa nascondemmo i botti sotto il mio letto, i nostri genitori non erano proprio entusiasti di quello che avevamo comprato. Ci attendeva una lunga tavolata fatta di intingoli succulenti e saporiti. Uno sterminato vassoio pieno di spaghetti con il ragù; un’enorme teglia d’agnello a forno con le patate; zuppiere colme di lenticchie con lo zampone; e, dolci, dovunque e comunque, dolci di tutti i tipi. Noi ragazzi correvamo tutt’intorno, sperando di rubacchiare qualcosa nella confusione. I nonni ridevano, gli adulti gridavano, i bambini ridevano: una baraonda furibonda che, miracolosamente, cessò proprio in prossimità delle ventuno. Ci sedemmo intorno a quella immensa tavola imbandita, occupando ognuno i propri posti: una madre, un figlio, il padre; così come si usava fare da noi, ed infine il concerto ebbe inizio.
Io e Ignazio eravamo seduti proprio uno di fronte all’altro, ci scambiavamo sguardi sottintesi; e mi accorsi, come se li guardavo per la prima volta, che gli occhi azzurri di mio cugino erano capaci di disegnare ardite circonlocuzioni solo con uno batter di ciglia e un muover di pupille. Il suo messaggio era comunque chiaro, appena prima della mezzanotte, bisognava tirar fuori da sotto il letto il nostro piccolo tesoro e piazzarlo convenientemente lungo la ringhiera della terrazza. Addentai il mio pezzo di carne, facendo scudo anche con il corpo a mia madre che intendeva servirmene un’altra porzione, e pazientai nel veder scorrere il tempo verso il momento tanto atteso.
Quando giungemmo alle lenticchie capii che mancava poco al nuovo anno. Quegli strani legumi a forma di piccole monete erano la nuova tradizione di famiglia, da quando, qualche anno prima, si era appreso con stupore e speranze che, mangiandoli per fine anno, si poteva diventare più ricchi. Se ci fosse una macchina capace di misurare la speranza, quanta ne peserebbe per la notte del trentuno dicembre? Diverse tonnellate, forse tanta, quanta neanche la terra potrebbe contenerne. Mangiai i piccoli dischetti marroni annegati in quel mare di dolce grasso che il zampone aveva generato, e guardai ancora una volta mio cugino. Ignazio fece di sì con gli occhi ed indicò l’orologio che scorreva sullo schermo del televisore acceso. Le ventidue e cinquantatre. Un’ora, poco più di un’ora. Iniziai a sognare quelle lunghe scie di fuoco che si sperdevano nell’aria e che svanivano in riccioli multicolore come angeli di fronte al sole. Immaginai il grande razzo regalatoci da Tullio, fuggire alla gravità della Terra e raggiungere la luna esplodendo in un frastuono ricco di scintille colorate. Rimasi immobile per qualche minuto, tanto che mio padre mi diede una sonora sberla per svegliarmi e indirizzarmi sulla montagna di dolci che erano appena stati serviti, antipasto adeguato e generoso allo spettacolo pirotecnico che da lì a poco io e Ignazio avremmo offerto ai nostri parenti.
Babà, cannoli, paste reali, pastelle, bignè al cioccolato, torte alla frutta, panettoni semplici, con crema allo zabaione, con e senza uva passa, pandoro, pandoro con crema al pistacchio, ricoperto di praline di caffè, una così alta concentrazione di zuccheri che neanche nel sangue di mio zio Antonio, il diabetico. Quando finimmo di abbuffarci ed Ignazio introdusse nella sua immensa pattumiera che chiamava stomaco, l’ultimo cannolo, mi accorsi con estrema frenesia che erano le ventitré e cinquantaquattro.
Mi precipitai sotto il mio letto, presi con me tutto l’armamentario e, aiutato dalle robuste braccia di mio cugino, lo piazzammo con grande soddisfazione lungo la ringhiera del balcone. Ci vollero quasi cinque minuti. Quindi, allo scoccare dell’ultimo minuto dell’anno, ogni cosa stava per esplodere in quella che, senza timori di essere smentiti, si poteva chiamare la nostra piccola guerra.
Meno cinque, accendere le micce; meno quattro, posizionarsi a distanza di sicurezza; meno tre, guardare le bocche aperte di meraviglia di parenti e affini; meno due, assaporare il momento dell’esplosione; meno uno, ascoltare gli spari di chi ha l’orologio un po’ avanti; zero, guardare le fiamme e le scintille che salgono verso il cielo, e il fumo denso e il rumore che confonde tutto, ma proprio tutto, anche le luci che vengono dalla strada e i raggi lunari…E, a più uno, accorgersi che il razzo di Tullio è fermo immobile: inesploso.
Sorvolo sulle bestemmie che sfuggirono dalla bocca di Ignazio, fin troppo seccato per poter ragionare (invero, ragionava poco anche da calmo). Io, dal canto mio, ero un po’ incavolato, ma divertito dalle urla di mio cugino che, prima che chiunque altro potesse farlo si avvicinò al botto inesploso e lo guardò attentamente davanti e di dietro, come un contadino fa con una vacca prima di comprarla. Fu quella l’ultima volta che lo vidi. Un’esplosione enorme e deflagrante ci investì tutti, caddi a terra travolto da due miei cuginetti più giovani e da mio padre che cercò di proteggerci. Le finestre andarono in frantumi, vidi mia madre e mia zia portarsi le mani sul volto pieno di sangue. Ma, tra tutto quel frastuono e quella tragedia, come in preda ad una macabra curiosità, guardai ancora una volta verso il razzo, e lo vidi, lo vidi distintamente volare dritto come una freccia verso la Luna.
Ancora oggi, a quasi quarant’anni di distanza, mentre parlo con i miei figli di come passavamo le feste di fine anno insieme ai loro nonni, mi accorgo che il mio sguardo si sofferma spesso sul nostro pallido satellite che è lo stesso di un tempo, anzi no. Nei suoi occhi immaginari, tracciati da secoli e secoli di superstizione, rivedo le stesse pupille azzurre di mio cugino Ignazio che mi guardano, che ci guardano da lassù, e che sembrano ancora una volta dirmi semplicemente “buon anno”.



L’ODORE DELLA VITA 
Racconto di Claudio Chillemi 

Mio nonno odorava di formaggio. Quando andavo nella sua casa, proprio ai limiti del paese, mi aspettavo di trovarlo seduto accanto alla sua vecchia cucina a mangiare pecorino piccante e cipolla fresca. L’odore, per molti il tanfo, del formaggio si spandeva come una nuvola dentro quella casa antica e per certi versi misteriosa. Considerata la sua età, il padre di mio padre era un vecchio fin troppo arzillo, teso com’era a guardare il futuro, lui che il futuro l’aveva incontrato e superato da un pezzo. Appena mi vedeva, scattava in piedi, portava le sue mani nodose sul mio imberbe viso e rideva di una contentezza interiore che sembrava non avesse limiti. I suoi occhi neri, luccicanti come stelle di un cielo in montagna, mi leggevano dentro, mi rivoltavano come un calzino, e mi davano una serena certezza.. Non so dire quale fosse il motivo per cui consideravo quell’uomo, lontano da me quasi settant’anni, il mio migliore amico. Il mio solo amico. Si potrebbe pensare che fosse assurdo gettare un sentimento robusto e pesante come l’amicizia, in un rapporto limitato nel tempo, concluso in pochi anni, in pochi giorni. Ma, come tutti i sentimenti, anche l’affetto che mi legava a mio nonno era quello dell’assurdo, dell’incontrollabile, dell’intollerabile battito del cuore. Chi quel giorno di fine novembre, si fosse avvicinato alla casa di mio nonno non avrebbe sentito più odore di formaggio. Avevo appena compiuto diciassette anni e, com’ era abitudine, mi stavo recando dal padre di mio padre per ricevere il mio meritato regalo. M’inerpicai su quella strada dissestata, solcata da rivoli d’acqua da poco piovuta. Aleggiava un leggero sapore di muffa e, sotto i piedi, scricchiolavano le foglie recise dall’autunno. Una volta giunto sulla soglia della casa, mi resi subito conto che qualcosa non andava. Non era il silenzio, là vi era sempre silenzio. Non era la luce spenta o il silenzioso lamento di un cane, quelle erano cose normali in quel luogo. Quello che non avvertivo era la saporita presenza di mio nonno. Entrai accompagnando lentamente la porta cigolante, mi guardai intorno e vidi una colazione consumata a metà, una sedia china per terra, una finestra, solitamente chiusa, spalancata sulla campagna circostante. Dov’era mio nonno? Lo chiamai ad alta voce, mentre sentivo il mio cuore batter veloce come il suono di tuoni lontani, 2 che presto sarebbero arrivati. Ma le mie urla, la mia disperazione, si disperse nei prati e nel bosco, cadde nel silenzio senza risposta che la natura sapeva dare. Allora uscii fuori. Corsi tutt’intorno il piccolo edificio, guardai in ogni anfratto, in ogni singolo nascondiglio che avevo imparato a conoscere durante la mia adolescenza. Di mio nonno nessuna traccia. Dove poteva andare un novantenne sedicenne, claudicante, malato di cuore? E poi, quella colazione interrotta, quella sedia rovesciata, quella finestra forzata. Un incidente, un’aggressione, probabilmente opera di maniaci, o più semplicemente di ragazzi annoiati, frustrati, incompresi. La mia corsa si fece incalzante, le mie urla d’aiuto incessanti, correvo come un disperato, senza sapere dove andare… e, all’improvviso scorsi un’ombra che pendeva dagli alberi, mi fermai immobile, trattenei a lungo il respiro, e mi avvicinai. Quell’ombra assomigliava molto al cappotto di mio nonno, quando arrivai a pochi metri da lui, mi resi conto che era in effetti il suo soprabito che penzolante dondolava da un ramo a un metro da terra. L’osservai attentamente. Niente, proprio niente, che potesse risolvere quello strano mistero, ma, quell’abito m’indicava che la direzione era giusta, che se volevo realmente scoprire qualcosa dovevo proseguire per quella strada. Camminai allora lentamente con una strana sensazione nel cervello, come se una vocina mi dicesse che non c’era nulla da temere, che mio nonno era in qualche posto là, nel suo amato bosco, e che forse con quei segnali, già proprio quei segnali, mi volesse dire qualcosa. Lui mi aspettava, ne sono certo, andavo tutti gli anni a trovarlo per il mio compleanno, e forse quello era solo un modo come un altro per farmi una sorpresa. Perso in queste mie considerazioni mi ritrovai sulle rive di un fiumiciattolo che scorreva rigoglioso, gonfiato dalle recenti piogge; proprio vicino ad un masso che sporgeva l’ambito dell’acqua, trovai, semiaperto, il coltello da cui mio nonno non si separava mai. Un altro segnale, o un caso fortuito? La punta di quello strano arnese era rivolta verso Nord, non trovai nessun valido motivo per non proseguire per quella direzione. Iniziò allora la scalata della piccola collinetta chiamata “sella di cavallo” che divideva la mia provincia da quella limitrofa, così chiamata per la strana configurazione del terreno che, ovviamente, aveva la forma del dorso di un equino. Era in quella collina che il padre di mio padre aveva portato la moglie in quello che pomposamente potremmo definire “viaggio di nozze”, ma che in realtà fu una fuga d’amore d’altri tempi. Sulla cima, infatti, vi era una piccola casupola in pietra grezza, e lì i miei nonni aveva concepito il loro primo figlio. L’oltrepassai, ispezionandola a 3 dovere, senza trovare nessuna traccia, quindi iniziai il lungo declivio che portava a valle. Mio nonno si era sempre vantato di non aver mai attraversato i confini della terra in cui madre natura l’aveva fatto nascere, perché allora indirizzare il suo giovane nipote verso una terra che lui avrebbe considerato straniera? Tirai un respiro di sollievo e varcai il confine. Io conoscevo bene quella zona, al contrario del mio vecchio parente ero stato in molti luoghi lontani, ma percorrendo quella strada, seguendo le orme di mio nonno, avvertivo la profonda sensazione di nuovo, di sconosciuto, di ineffabile. Mi stavo introducendo nel sogno di un uomo, si, in quell’incredibile sensazione d’assurdo e nello stesso tempo di reale, che accompagna i nostri desideri. E mentre mi perdevo in queste considerazioni ecco sbucar dal terreno, là dove l’erba era meno fitta e il soffice muschio ricopriva le rocce, ecco, come dicevo, apparire un paio di scarpe, lucide, ben curate, quasi nuove. Avevano oltre trent’anni, era stato l’ultimo regalo di mia nonna, prima che lei se ne andasse senza aver compiuto ancora sessant’anni, mio nonno le teneva ai piedi sempre, del resto, per il limitato raggio d’azione del suo fisico, sarebbero potute durare in eterno. Fu allora che iniziai a tirare la somma. A casa avevo trovato una colazione interrotta, la sedia dove mio nonno passava la maggior parte del suo tempo, china per terra; la finestra, da dove mio nonno guardava il mondo, spalancata. Il messaggio era chiaro: non era più il tempo di sopravvivere (quindi niente più formaggio); non era più il tempo di stare seduti a vedersi morire (quindi giù la sedia!); non era più il tempo di guardare il paesaggio, ma era ora di percorrerlo (quindi finestra spalancata!). E poi, durante il tragitto, quel cappotto appeso, il cappotto… il peso della vecchiaia, il non poter più affrontare l’autunno a maniche corte e capelli al vento…e proseguendo con quel coltello su un sasso in riva al fiume: l’acqua e la pietra sono due cose che la lama non può tagliare, e quindi ecco perché abbandonarla semiaperta, quasi inutile. Ed infine le scarpe, le pesanti suole del passato che ripercorrono sempre lo stesso sentiero: quello del ricordo. Quando tirai le somme di tutto ciò che avevo visto, capii chiaramente, dove e come, avrei trovato mio nonno. Mi gettai a rompicollo lungo la discesa della valle, lasciandomi alle spalle, lontana “sella di cavallo”, sapevo bene che di lì a pochi chilometri vi era un dirupo di cui il padre di mio padre mi parlava spesso. Era lì, infatti, che circa centoventi anni prima e caduto ed era rimasto ucciso un mio 4 trisavolo. La notizia era stata così eclatante per la gente di allora che quel precipizio portava ancora il nome del mio antenato. Fu lì, seduto su una pietra bianca, corrosa dalla forza eolica, che trovai un uomo; già un uomo… non posso definirlo in altro modo. A piedi scalzi, con un risvolto giovanile nei pantaloni, con una camicia aperta sul petto dove sporgevano candidi peli; e con un sorriso scolpito sul volto. Il vento muoveva i suoi capelli e gonfiava le sue vesti, dando l’illusione che respirasse e che, in qualche modo, si muovesse. Mi sedetti accanto a lui, toccai la sua mano e la sentii fredda. Fu allora che chiusi gli occhi, appoggiai il capo sulla mia spalla e, addormentandomi, ascoltai le mille parole che aveva da dirmi.




TUTTI I DIRITTI RISERVATI - CLAUDIO CHILLEMI 2020




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